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Brockhampton, the world greatest boyband

15 NOVEMBRE 2020 | CARLO SCOTTO DI CLEMENTE

“Making music, living in California, with a bunch of friends”. Sono le parole con cui Kevin Abstract descrive a Rick Rubin le sue aspettative per il futuro durante l’infanzia – in una piacevolissima epic conversation di GQ, vi lascio il link. Non riuscirei a trovare incipit più azzeccato per aprire questa introduzione ai Brockhampton, e soprattutto per evocare la totale spontaneità di questo progetto. Un gruppo di amici, una casa in California, fare musica. Dalle fanpage a Viceland fino ad approdare a collaborazioni con Asap Rocky e Dua Lipa, dagli scantinati del Dirty South ai salotti di Kimmel e Degeneres, quel gruppo di amici ha finito per rappresentare uno dei fenomeni più interessanti dell’universo alternative hip hop degli ultimi anni. La storia ha inizio nella chatroom di KanyeToThe, blog di fanatici di Yeezy e luogo di incontro virtuale di Kevin, Joba, Matt e gli altri. I ragazzi si conoscono online – the internet’s first boyband – poi si incontrano fuori dal web e cominciano a suonare.

Abbandonano il Texas, scappano dal Sud e si spostano a Los Angeles, come da copione. Lavorano come i pazzi, scrivono, convivono e sfornano una cinquantina di pezzi indimenticabili nel solo 2017. In ciascuno dei primi album, ogni singolo step della catena produttiva del collettivo si consuma completamente in house: beat, barre, video, nulla è esternalizzato, nulla è affidato a estranei. Per avvicinarsi al loro immaginario caotico e multiforme partiamo da Saturation, il titolo della trilogia che ha consacrato il successo della boyband texano-californiana. Saturazione qui significa secondo me essenzialmente due cose: riempire il mercato, farcirlo a più non posso con album ricchissimi e lunghissimi, e inventare una dinamica di gruppo tale per cui nonostante la numerosità della band (13 membri attuali) ciascuno partecipa con la stessa centralità

degli altri. A differenza degli antesignani per eccellenza, gli Odd Future, i Brockhampton riescono infatti a instaurare situazioni molto più partecipative e organiche. Saturation e The Odd Future Tape II si distinguono soprattutto per un aspetto: ai pezzi del primo partecipano sempre tutti o quasi tutti i membri, mentre nel secondo si creano collaborazioni episodiche e più limitate – due, massimo tre membri alla volta – unica eccezione per Oldie. I pezzi dei Brockhampton sono sempre corali, vivono di una simbiosi che è il primo fondamentale piolo della scala genetica del gruppo. E sarebbe troppo semplice attribuire il merito di questa efficientissima fusione alla leadership dello pseudofrontman Kevin Abstract, al secolo Ian Simpson – ma non è che gli piaccia tanto condividere il cognome dei personaggi di Matt Groening, o come dice lui in Junky: “delete my tweets ‘cause I’m ashamed of being a fuckin’ Simpson”.

Partendo dal presupposto che parlare dei tre album Saturation I, II, III – tutti risalenti all’annus mirabilis 2017 – senza selezionare qualche highlight sarebbe infattibile, mi limiterò ad abbozzare una sorta di intro ai Brockhamtpon selezionando per ciascun disco un pezzo significativo. Per ogni album inserirò la data e il numero di minuti totali, per darvi idea di quanto la saturazione sia vivida ed effettiva.

SATURATION I (9 giugno, 51 minuti), HEAT

Heat apre il primo vero record dei Brockhampton ed inaugura la trilogia, ma si discosta nettamente dalle produzioni future del gruppo. La base è una strumentale costruita su colpi di batteria feroci e note di basso distorte, e ricorda molto l’hip hop industriale dei Death Grips (risuonano gli echi di No Love). Queste sonorità ritorneranno in parte solo nel quinto album Iridescence, per essere poi bruscamente abbandonate insieme ad altre sperimentazioni e deragliare nella piattezza degli ultimi lavori del gruppo. La centralità di Heat nell’economia dei tre Saturation deriva essenzialmente da un motivo: nel pezzo di apertura dell’album di esordio, e nella strofa di Dom McLennon in particolare, è anticipata la centralità della depressione nella narrativa del collettivo. Tornando al quesito sulle ragioni della simbiosi di cui sopra, forse una parziale risposta la si può individuare nella rilevanza per tutti i membri di problemi riguardanti la salute mentale. Questo elemento è collante che – tra gli altri – restituisce coerenza ad un mosaico magmatico di voci, timbri, flow enormemente diversi. Un’altra perla plasmata sul dolore psichico e la sua imprevedibilità è Bleach, bellissima ed eterea, ma anche e soprattutto nell’ultima fatica Ginger (2019) il tema fermenta diventando colonna portante, ma perde senso e consequenzialità. In Ginger la depressione è affrontata in modo iper-individuale, ciascun membro ne parla dimenticandosi di riallacciare le sue parole a quelle degli altri e finendo per abbozzare una brutta carrellata di pigliate male che sono tutte fini a sé stesse e per niente collegate tra loro. E proprio per questo apprezzo Heat: qui il dolore di Dom – I know I’m tryna change, but it’ll never work, Just end up more broken down than when I started – si accompagna ad una serie di strofe feroci che la incorniciano perfettamente e accostano alla disperazione il contraltare della rabbia.

“Who done called the cops on my niggas?

That’s the first one to go, the first shot I blow”

SATURATION II (25 agosto, 46 minuti), JUNKY

Questa traccia è davvero una delle mie preferite in assoluto. Kevin Abstract, nella prima strofa, innalza al cielo un’incredibile celebrazione dell’omosessualità raccontata come attributo che finalmente sposa la credibilità di strada. Comincia ad evaporare quella cappa di machismo tossico che ha troppo spesso caratterizzato l’hiphop.

‘Why you always rap about bein’ gay?’
‘Cause not enough niggas rap and be gay
Where I come from niggas get called ‘faggot’ and killed
So I’ma get head from a nigga right here
And they can come and cut my hand off and
And my legs off and
And I’ma still be a boss ‘til my head go, yeah’

La forza di queste parole non è solo incastonata nella lucidità con cui è messo in luce il dramma della discriminazione, ma sta proprio nella capacità di sdoganare un tema che è sempre stato il peggior insulto per un rapper che volesse tenere alta l’attitudine. Per Ian Simpson è il contrario, la realness è figlia di una omosessualità che può essere descritta con la stessa schiettezza con cui i rapper straight possono narrare le loro avventure sessuali facendosi grandi delle loro pussies, bitches e chi più ne ha più ne metta. “To get head from a nigga right here” diventa medaglia di attitude esattamente allo stesso modo. La base è edificata su pizzichi di basso dissonanti e cupamente ripetitivi e nella prima strofa fermenta un climax di tensione destinato ad esplodere dopo il bridge, quando finalmente decollano le percussioni e la strofa di Ameer Vann.

SATURATION III (15 dicembre, 46 minuti), RENTAL

Rental è importante per definire l’ultimo aspetto fondamentale del gruppo: l’estetica. Oltre alle barre disperate e ringhianti dei due pezzi che abbiamo visto qui sopra, moltissimi altri brani del collettivo si perdono in atmosfere rarefatte e riferimenti eterei. Il patrimonio culturale dei Brockhampton è quindi fatto anche – e soprattutto – di versi sognanti e romantici, basati su questo assurdo refresh dell’estetica boyband, un po’ pop un po’ Justin Timberlake. I richiami a questo immaginario si sprecano e riescono a svecchiarlo, con Ameer che cita gli One Direction nella prima strofa di

Boys – I feel just like Zayn, I feel just like Harry -, o Joba che menziona JT e gli NSYNC in Sweet. E il bello è che tutto l’ego trip del gruppo si gioca su questi rinvii e sulla fierezza di fregiarsi del titolo di world greatest boyband. Rental descrive bene questa estetica softcore: le vocina pitchata di Kevin Abstract nel ritornello, le parole smielate delle strofe, il beat morbido e coinvolgente, ma soprattutto la parte cantata di Matt Champion che inonda la traccia di quella passione a metà tra il tormentato e il volutamente eccessivo tipicamente teen pop:
Throw me in the fire, baby, I’ll survive
Coming top down by the seaside
Ay-yi-yi-yi-yah
Ay-yi-yi-yi-yah
See the road sign on the 45
Only you and me by the borderline (ooh)
Ay-yi-yi-yi-yah (ooh-ooh-ooh)
Ay-yi-yi-yi-yah, let it go

Concludendo, ascolta i Brockhampton perché interpretano la transizione che mi pare la più auspicabile per l’hip hop mainstream nel decennio dei 2020s: l’abbandono di stereotipi vetusti in stile rapper muscolosi e criminali a tutti i costi e il coraggio di sdoganare la parte più dura dei propri vissuti, il tutto tenendo altissima l’attitudine.

CARLO SCOTTO DI CLEMENTE – Studio giurisprudenza e sono romagnolo ma vivo a Milano. Mi piace fare ricerca musicale e ancora di più scrivere.

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