“I vinti”, il nuovo album di Marquez
9 NOVEMBRE 2020 | LEONARDO FORCELLI
Premete play e ASCOLTATE IN ANTEPRIMA questo bellissimo disco. Esce il 13 Novembre il quinto album di Marquez, all’anagrafe Andrea Comandini, una certezza del mondo musicale indipendente, un artista intimo che ha scritto sempre grandi melodie e testi profondi e personali. Autore fin dagli inizi di un pop maturo senza vincoli, capace di sperimentare senza strafare.
In questo album, con il contributo di Michele Bertoni nella produzione, è stata creata un’ambientazione unica, ultraterrena, in cui i brani sono immersi. Per l’occasione abbiamo fatto qualche domanda ad Andrea. Inoltre POTETE PRENOTARE UNA COPIA dell’edizione limitata del disco QUI, un cofanetto con stampe 15x15cm, fotografie di Marcella Magalotti, scritti vari e cd.
Le foto e l’artwork sono di Marcella Magalotti.
In tutto l’album sembra di essere immersi nell’incubo che stai vivendo: un deserto in bianco e nero dove non riesci a muoverti, cerchi qualcosa, vorresti agire, soccorrere, proteggere, ma sei goffo come un albatro, come un cavaliere con l’armatura, o immobile come un albero. Cosa, o chi, stai cercando di recuperare?
I miei simili credo. Ma anche le relazioni, la socialità, uno scorrere del tempo più giusto, perché quando scrivo parto sempre da me, ma intendo raccontare molto di più.
E lo scenario nebbioso nel quale mi sono ritrovato durante la stesura di questo album, penso sia semplicemente una trasposizione metaforica del momento storico che stiamo vivendo e delle criticità che esso ripercuote su una società snervata.
Sono molti gli elementi che sembrano palpitare e poterti far riemergere da questo mondo: una bocca infernale, un cuore elettrico, un bacio che diventa fuoco fra la cenere, braccia ardenti, tutti di un rosso vivo. A chi appartengono?
Mi fa molto piacere che tu abbia colto questo dettaglio.
Il rosso inteso come materia viva e pulsante è un’idea, qualcosa che riesce a legare l’astrattezza della luce e la corporalità del sangue. Mi ha permesso di spaziare su una geografia dove possono coesistere la fisicità dell’uomo, le distanze del cielo, le viscere della terra.
L’albero è simbolo di saggezza, di colui che ha visto tante cose (quasi tutte le liriche sono volte al passato), ma non ha potuto agire, che conosce i segreti del mondo, ma non sa parlare, e questo genera il senso di malinconia che pervade spesso questi brani. E’ forse questo che ci rende dei vinti?
Sì, senz’altro. Racconto l’incapacità di prendere posizione, di rendersi parte attiva, l’insofferenza e l’insoddisfazione che diventa resa. Penso che stiamo perdendo, sopraffatti dalla noia e dal semplicismo.
Quale modo rimane ai vinti per sopravvivere? Farsi tenebra?
Tutt’altro. “Farsi tenebra” rispetto agli atteggiamenti violenti e autoritari ormai istituzionalizzati, la voce gridata, la banalità, questo senz’altro, anche perché trovo che sia già di per sé un agire. Ma parlo anche di trovarsi, condividere un’idea, di resistere sostanzialmente.
Una domanda classica: ci sono punti di riferimento particolari per questo lavoro?
Non direi. Anche se posso dire che gli ultimi due album sono figli più della letteratura, mi ritengo onnivoro riguardo ad apprendere e assorbire. Non mi pongo limiti quando si tratta di ascoltare, leggere, vedere, immagino quindi che tutto venga rielaborato e in qualche misura finisca nelle cose che faccio.
E’ probabilmente il tuo album più cupo, questo massiccio (e riuscitissimo) utilizzo dei synth, a discapito delle chitarre, è stata una scelta arbitraria o ci sei arrivato durante la produzione del disco?
Era una cosa che volevo fare da tempo e finalmente ci sono riuscito.
Devo dire che l’idea si sposava alla perfezione con le immagini che volevo evocare in questo lavoro: avevo intenzione di creare un ambiente asettico dove anche la voce fosse glaciale e le liriche risultassero spietate. Durante la produzione, grazie al lavoro di Michele, il concetto si è molto ammorbidito rispetto a come lo avevo immaginato e ha raggiunto fortunatamente la sua piccola (im)perfezione.
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